A cura di Mariella Epifanio
Le terracotte di Gerocarne
Quando si afferma che la Calabria è la terra degli Dei e ne è la loro meravigliosa casa, probabilmente definiamo ancora in maniera riduttiva, la bellezza di un territorio che non ha eguali in nessuna parte del mondo. Perché questa striscia di paradiso tra montagne e mare, tra i secolari ulivi della costa e i maestosi Pini larici dell’entroterra silano, il mare verde smeraldo della costa e le gole profonde di Civita, ha nella sua anima ancora viva e forte, l’amore per le sue radici, la sua storia, le sue tradizioni culturali, agricole, manifatturiere, gastronomiche e religiose. E non serve spostarsi di molti chilometri per restare estasiati dalla bellezza dei suoi innumerevoli panorami. Ne è un esempio la meravigliosa cittadina di Gerocarne.
Origini di Gerocarne
Il toponimo, citato come Geracarne in un documento del XIII secolo, deriva dal nome di persona Ieracari (dal greco “ierakàres”, ‘falconiere’), con l’aggiunta del suffisso -ones, per cui indica ‘i discendenti della famiglia Ieracari’. Non manca però chi ritiene che la denominazione del centro abbia il significato di ‘sacra carne’. Del patrimonio storico-architettonico fanno parte alcuni edifici di culto, tra cui spiccano: la parrocchiale di Santa Maria dei Latini, di origini medievali, rifatta dopo il terremoto della seconda metà del XVIII secolo e in cui si può ammirare una croce astile, risalente forse al Quattrocento; la chiesa di Ciano. Interessanti sono anche i ruderi di un convento basiliano del XV secolo.
Gerocarne ha nel suo centro storico, un pezzo di storia umana e sociale, di quello che è stata ed è ancora, la sintesi della calabresità per eccellenza.
Percorrendo con il giovane e appassionato sindaco di Gerocarne, Vitaliano Papillo, le viuzze del meraviglioso Borgo dei Vasai, mi rendevo conto, passo dopo passo, di stare facendo un percorso a ritroso nel tempo: tra gli odori e i tegami della cucina di mia nonna, a tempi lontani, anche antichi, in cui l’artigianato era il mestiere che dava vita ai piccoli borghi e alle comunità.
I vasai di Gerocarne
Ed è quello che fanno alcuni tra gli ultimi vasai di Gerocarne rimasti i custodi di un arte che ha del fantastico. Tra questi, il giovanissimo Tommaso Papillo e il padre, suo maestro. Sono stata accolta in quel piccolo e antico laboratorio con l’umiltà e la gioia che è tipica della gente operosa della mia terra.
Il rumore della ruota di legno spinta con forza dal piede, la cosiddetta “fadda” e, le mani ferme sul pezzo di creta poggiato sul tornio in un’ambientazione quasi medievale, rendevano quelle creazioni magiche: un pezzo di terra sapientemente modellato dalle mani che, con l’aiuto di antichi strumenti di lavoro (la stecca ad esempio, che è una spatola in legno di arancio che serve a definire i bordi esterni dei vasi o a decorarli e, una pezza di velluto inumidita per definire meglio la superficie di ogni oggetto), diventava improvvisamente “pignata”, “tieja” o “tiana”, o brocca per il vino.
Le pignate ad esempio, vengono utilizzate per cucinare i legumi al caminetto in inverno, la “tieja” o “tiana” invece, per fare gustosi ragu’ di carne o apprezzatissimi piatti di stocco con capperi e pomodoro su piastra o al forno. E la brocca, contiene il vino a temperature sempre fresche, come fosse un frigo, rendendo piacevole ogni sorso.
La meraviglia di questa ricca visita a Gerocarne, è continuata, nel vedere gli antichi forni di cottura dei tegami in terracotta. Uno addirittura, risalente al 1400 d.c.
Il vecchio maestro ha spiegato, che il forno si accende in inverno ogni 2 o 3 mesi. Il tempo di realizzare 1500-2000 pezzi da far asciugare prima all’aria aperta (in grandi stanze) e poi, da mettere in cottura. E anche la cottura è un’arte: la sistemazione dei pezzi in circolo, la copertura dei pezzi in terracotta con rami secchi di ulivo (derivanti dalle potature) o in loro assenza, di ginestra (più facile da reperire in montagna). Un’arte ferma nel tempo, che non dipende da nessuna evoluzione tecnologica.
Quello svolto da Tommaso e suo padre, è un lavoro sapiente, che non si apprende dai libri ma da una cultura visiva e tattile, dalla volontà di far rivivere qualcosa che fa parte di noi e che tramanda, nelle case dei calabresi, una parte di antica quotidianità.
Perché la Calabria quella vera, la trovi nella sua semplicità e si rivela nella sua magnificenza, solo ad occhi attenti, ad animi predisposti ad accogliere la bellezza di una vecchia pietra o di un portone tarlato, di una vecchissima bottega di artigiani, di un fornaio dallo sguardo amico che ti omaggia di un dolce tipico appena sfornato, del dialetto che diventa musica tra le strette viuzze d’un paese.
Tutto questo è Calabria. Tutto questo va tutelato con forza e costanza da ognuno di noi, perché rappresenta IL NOSTRO ESSERE: quello che era, che siamo e che saremo domani.
E onore e merito a tutti quei sindaci, quelle amministrazioni che, puntano con passione e impegno alla promozione del territorio partendo dal basso, da quello che altrimenti, andrebbe irrimediabilmente perso. E se perdiamo ricchezze come quella dell’antico artigianato, perdiamo la nostra storia. E “un popolo senza storia”, come diceva il caro Mimmo Martino, “è come un albero senza radici”: non può avere vita, né futuro.